I LAICI E LA REGOLA DI S. GIOVANNI DI MATHA.

 

La Regola di S Giovanni de Matha non è stata scritta solo per i religiosi; anche coloro che non hanno abbracciato la vita consacrata possono trovare in essa principi di vita.

Ancora lui vivente, l’Ordine della Santa Trinità, oltre alla vera e propria famiglia religiosa, comprendeva altre componenti. Nel secondo capitolo, infatti, è scritto: “[…]dei domestici, dei quali hanno necessità”. Il termine “domestici”, così com’è tradotto nella versione ufficiale della Regola, è, a dir poco, restrittivo in quanto dà l’idea di servitori addetti ai lavori più umili. Conoscendo bene lo spirito di amore fraterno che animava S. Giovanni, penso che sia da escludere che egli avesse intenzione di regolamentare una forma di servitù nel suo Ordine. Il termine originale latino da lui usato è “famulantium”, che deriva da famulus, vocabolo molto usato nella liturgia per indicare il popolo orante che si rivolge a Dio. Il suo significato quindi esprime più un concetto di figliolanza che di servitù.
Senza dubbio questo era anche il concetto che intendeva egli, quando usò tale termine. Dal contesto infatti si capisce che questi aggregati all’Ordine non erano stipendiati come si converrebbe a dei servi, ma vivevano degli stessi proventi con i quali si sostentavano i frati, com’è riportato nel secondo capitolo: “Tutti i beni […] li dividano in tre parti uguali; ed in quanto due parti saranno sufficienti, compiano con esse opere di misericordia, provvedendo insieme ed in giusta misura al proprio sostentamento e a quello dei domestici, dei quali hanno necessità”.
In un altro capitolo della Regola, che citerò in seguito, si ha la convalida di tale affermazione.
Che nelle case della Trinità ci fosse bisogno di collaboratori, per così dire, esterni è assodato, a causa del concetto che S, Giovanni aveva delle sue comunità. Nel quarto capitolo è scritto: “I frati in una medesima casa possono essere tre chierici e tre laici, e inoltre uno che sia il procuratore”. Come si vede, il numero dei religiosi dimoranti in una casa doveva essere ristretto, nonostante che i loro impegni fossero molteplici. Oltre al riscatto degli schiavi, essi dovevano prendersi cura dei malati e dare assistenza ai bisognosi che trovavano alloggio nelle case della Trinità, come è scritto nel diciassettesimo capitolo: “La cura degli ospiti, dei poveri e dei viandanti sia affidata a un frate”. Per ovviare a ciò S. Giovanni ebbe l’idea d’aggregare altre persone, oltre ai frati, alla vera e propria famiglia religiosa, come risulta dalla lettura del sedicesimo capitolo: “Gli infermi dormano e mangino da parte; alla loro assistenza sia deputato qualche converso laico o chierico.
Come si può notare, in questo capitolo Giovanni usa un altro termine, diverso da frate e da domestico, per indicare persone affiliate all’Ordine con compiti strettamente pertinenti alle sue finalità.
Nel ventunesimo capitolo S. Giovanni fa un compendio succinto di come dovevano essere composte le case del suo Ordine. Leggiamolo: “Non solo ai frati ma anche alla famiglia della casa, se è possibile, si faccia ogni domenica un’esortazione.
Come si può notare si parla di due componenti diverse (frati e famiglia) della stessa entità (casa della Trinità). A sua volta la famiglia comprendeva i famuli (o domestici) ed i conversi.
Da quanto s’è detto fino ad ora, si deduce che le case della Trinità, così come le aveva concepite Giovanni de Matha, erano formate da realtà diverse che si integravano fra di loro, operando insieme per un fine comune; e che i componenti di alcune di queste realtà non erano frati (ossia religiosi), bensì laici. A conferma di quanto detto c’è la testimonianza del monaco cistercense Alberico, che tra il 1230 ed il 1240 nel suo “Chronicon” scrisse, tra l’altro, a proposito dell’Ordine dei frati della Santa Trinità: “Di queste piccole congregazioni ne hanno in Francia, Lombardia e Spagna, ed anche oltre mare, fino a seicento, e alcune sono composte da molte persone. Secondo qualche storico dell’Ordine Alberico avrebbe esagerato nel citare il numero di dette congregazioni. Con tutto il rispetto, io sono del parere che egli sia dalla parte della ragione. Lo scrittore, indubbiamente, nel computo volle annoverare sia le case propriamente dette, sia le altre organizzazioni affiliate all’Ordine. Infatti, oltre al fatto che egli è molto preciso nell’esposizione di tutto il resto del testo, parla prima di “piccole congregazioni” e subito dopo asserisce: “e alcune sono composte da molte persone”. Non posso credere in una sua macroscopica contraddizione. Da notare, inoltre, che nel periodo in cui visse Alberico uscirono le prime Bolle pontificie che parlano delle “confratrie”, vale a dire di quelle confraternite della Trinità, tuttora esistenti, impegnate in prima persona a collaborare fattivamente con i frati delle case della Trinità nelle loro molteplici attività caritative.

 

 

 

 

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